il mio domani

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IL MIO DOMANI CONTINUA SU…

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FARE O GUARDARE?

Nel film Harry ti presento Sally c’è una battuta folgorante: i giovani Harry e Sally, in viaggio verso l’università della Grande Mela, iniziano a conoscersi e Harry chiede a Sally cosa vai a studiare a New York? e Sally risponde giornalismo e lui acidamente contraccambia dicendo così racconti la vita degli altri anzichè viverla. Magari non ricordo perfettamente le battute ma il concetto è questo: vuoi fare o guardare? Vuoi vivere la tua vita o assistere, come al cinema, alla vita degli altri?

Oggi c’è moltissimo da fare e possiamo eesere certi che il nostro ruolo all’interno dell’economia di questo Paese non ce lo dirà un rettore universitario nè tanto meno un prof illuminato o un selezionatore. Ce lo dirà invece la nostra passione  che va misurata sulla base del quanto sarà lo sforzo per raggiungere l’obiettivo e sulla base della nostra disponibilità a guardarci attorno e a chiedere a chi conosciamo che già lavora scusa ma nella tua azienda/ufficio/società che tipo di competenze state cercando?

E poi ci vuole l’umiltà e il coraggio di sbagliare, essere bocciati, andare dal prof a chiedere consiglio per la volta successiva, cercare qualcuno con cui studiare, chiedere aiuto ad amici e conoscenti anche via Facebook per arrivare velocemente ad avere le informazioni che ci servono per fare le scelte più corrette per l’avvenire.

VITA DA GIORNALISTA!

Questa è un’intervista che volevo fare da tempo perché tanti ragazzi vogliono fare i giornalisti e mi parlano del giornalismo “classico”, quello ormai morto e sepolto, per intenderci, e lo confesso, ci rimango un po’ male e penso: ma come? Con tanta tecnologia sotto il naso, con i media ormai dappertutto, ancora a pensare alla vecchia maniera? Per questo ci tengo particolarmente a questa intervista perchè ci porta dritto al cuore di un lavoro in grande mutamento e ci mostra quale energia speciale occorra davvero. Lara Lago è giovane e si muove con intelligenza e scaltrezza nel mondo del giornalismo moderno. La parola a lei…

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Ciao a tutti. Mi chiamo Lara, ho 30 anni. Come percorso formativo nell’ordine ho frequentato: il liceo classico, una corso di laurea triennale in Scienze della Comunicazione a Padova, la specialistica in Giornalismo a Verona. Lavoro da sempre (quando avevo meno di 10 anni mio papà era un venditore ambulante di abbigliamento per bambini e girava tutti i mercati della zona. Io d’estate mi alzavo alle 5, cosa che non farei più nemmeno sotto tortura, e lo accompagnavo in giro per le fiere). Durante il liceo d’estate invece lavoravo in uno studio di pratiche automobilistiche. Fare il lavoro della vita però è tutta un’altra storia. Ho iniziato appena ho potuto. Durante gli anni della triennale ho lavorato e collaborato (e tutt’ora collaboro) con un magazine mensile dedicato a musica, arte, cinema ecc. che si chiama Sound&Vision. Ci collaboro ancora perchè non voglio dimenticare il percorso che ho fatto, da dove sono partita. E’ importante mantenere salde le proprie radici. Poi il loro slogan era ed è “Be yourself and do what you want” e lo sposo tutt’ora in pieno. Nel 2007 mi sono affacciata nel mondo del giornalismo “vero”: la cronaca, le conferenza stampa, un massimo di righe da non sforare, uno stile di scrittura preciso senza fronzoli. Scoprivo cos’era lavorare sulla notizia. Finalmente, dopo essermi sentita dire da tanti docenti che “per fare il giornalista devi consumare la suola delle scarpe”, iniziavo a consumarle anch’io. Ho collaborato con la redazione di Bassano e Vicenza del Gazzettino dal 2007 al 2010, una palestra fantastica che mi ha formato in toto. Nel 2010 cambio di rotta: mi laureo alla specialistica, faccio un colloquio con la tv TvA Vicenza e mi assumono con un contratto estivo, per fare un pò da jolly e riempire i buchi dei colleghi in ferie. Il contratto viene trasformato dopo settembre in un contratto part time. E rimango da loro dove sono tutt’ora, ricoprendo diverse mansioni e lavorando anche, ultimamente, per Telechiara. Passano i mesi e attorno a questo lavoro se ne aggiungono altri. Curo l’ufficio stampa di un Comune, quindi la scrittura applicata alla politica e da novembre 2013 arriva anche quello che io definisco il lavoro dei sogni.

Faccio la giornalista perchè amo scrivere e il giorno che mi chiesi che tipo di giornalista avrei voluto essere (tra le giornaliste di Novella 2000 a un’OrianaFallaci qualsiasi diciamo che ce ne passa) mi risposi: corrispondente estera. Avevo sempre pensato però che avrei voluto lavorare per una testata italiana ed essere spedita in giro per il mondo. Non avevo mai pensato che un giorno sarebbe anche potuto accadere l’esatto contrario. Così è successo: ora sono una dei corrispondenti veneti per una testata di un quotidiano on line degli Stati Uniti “La Voce di New York” (consultabile su www.lavocedinewyork.com). Si scrive in italiano ma si lavora con una mentalità all’americana che ti incentiva a dare sempre il meglio. Super!

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Ottimo…vedo che anche con te, come con altri intervistati, il binomio studio-lavoro è presente e sembra proprio essere una gran palestra per imparare a darsi da fare e focalizzare più velocemente cosa si intende davvero fare. Infatti, quando è nata la passione per il tuo mestiere e come hai capito che non era solo lo sfizio del momento ma il tuo obiettivo vero di lavoro?

Avrò avuto circa 9 anni quando mia nonna paterna mi disse una frase che mi servì da lampadina nel buio. La disse in dialetto ma in italiano suona più o meno così: “Con la lingua lunga che ti ritrovi, da grande non potrai che fare o l’avvocato o la giornalista”. Ci aveva visto giusto. Ma 9 anni sono ancora pochi per capire cosa fare davvero nella vita. Amo scrivere da sempre, mi riesce facile, mi piace, non mi annoia mai. Quindi volevo lavorare con la scrittura, non potevo pensare di fare un mestiere che non fosse “tra le mie corde”. I giornalisti all’età delle medie li vedevo abbastanza dei personaggi affascinanti ma complicati, arrivare fin là mi sembrava una strada tortuosa. Preferivo forse più la scrittrice. Ma un percorso personale è anche una linea che unisce i diversi puntini. Io di puntini ne ho trovati parecchi e continuo a trovarne: sono fari nella notte che ti illuminano la strada. Ti dicono “c’è una strada e tu la devi seguire per questa via”. Il primo puntino, dopo mia nonna ovviamente, fu un concorso di scrittura nazionale che vinsi a 14 anni. Inizi a pensare “ok, se in tutta Italia quello che scrivo piace, qualcosa vorrà pur dire”. Poi un professore che in seconda superiore disse a mia mamma durante un colloquio “Signora quando sua figlia diventerà una giornalista affermata si ricordi di me. Mi va bene fare anche il portaborse del suo portaborse.” Una frase fin troppo lusinghiera che mia mamma smorzò subito con un “Ma cosa mi dice professore?!” ammutinando lui e facendo ridere me. Un altro faro fu il mio primo direttore al Gazzettino, colui che prese il mio potenziale (allora inespresso) da zero e lo trasformò con tanta pazienza e tutto ciò che serviva, dalle nozioni base ai consigli, alla visione del mondo. Ora di fari ne ho altri: sono fondamentalmente le persone che credono in te e che ti dicono “Sì stai facendo la cosa giusta. Continua così”. Ti riconfermano di continuo quale sia la tua strada professionale. Spesso sono proprio i tuoi capi o i tuoi colleghi, coloro con cui lavori tutti i giorni fianco a fianco. Certo, il lavoro non è fatto sempre di soddisfazioni. C’è anche chi ti urla dietro che è meglio se cambi mestiere. Ma non può che far bene. A quel punto sei costretta a fermarti e riflettere: “Davvero non sono fatta per fare questo lavoro? Come lo sto facendo? Cosa non mi piace? Cosa cambierei? Cosa voglio dal mio futuro professionale?”. Ricalibri il tiro e riparti. Con più forza di prima.

Quello che dici mi fa venire in mente 2 cose fondamentali nell’orientamento personale: primo, che contano molto i feedback degli altri, soprattutto perché quando si è giovanissimi sono spesso gli adulti a vederci più lungo di noi e bisogna fare attenzione ai loro commenti e ragionarci, approfondire. Secondo, occorre sempre fermarsi a riflettere e porsi domande lungo il cammino sul come sta andando, sul cosa migliorare, cosa scartare, ecc… estremamente importante per non perdere di vista la bussola. Anche perché se unendo i puntini ci si sposta dal primissimo obiettivo occorre trovare un senso generale del proprio percorso. Ad esempio tu lavori in uno dei settori che più si è evoluto grazie alle nuove tecnologie: quali sono le principali differenze tra i giornalisti vecchio stile che incontri e le giovani leve come te?

I giornalisti vecchio stampo mi piacciono tantissimo: hanno quel tipo di conoscenza che non viene da Wikipedia, ti raccontano di aneddoti delle persone che hanno intervistato, di notti a cenare con personalità più o meno importanti, a comunicare con le parole e non dietro allo schermo di un pc. I giornalisti vecchio stampo, almeno quelli che conosco io, oltre ad essere di loro affascinanti, con il fascino di chi ha toccato la storia negli anni, sono estremamente elastici. Erano abituati a dettare gli articoli via telefono alla segretaria che con la telescrivente trasformava i loro foglietti di appunti in articoli di giornale. Hanno un fascino che inevitabilmente si è perso. Spetta a noi, nuove generazioni, tenerci stretto quel fascino del giornalista che se voleva una notizia doveva andare sul posto e parlare con i testimoni. C’è invece il rischio, vuoi per gli stipendi che sono sempre più bassi, per le tempistiche di redazione che diventano sempre più veloci e che vanno gestite sempre in meno persone, che si faccia un giornalismo copia-incolla: arriva il comunicato stampa, cambio qualche parolina, lo pubblico nel quotidiano o lo faccio diventare un servizio di un tg. Questo è quello che il giornalismo NON deve diventare, anche se spesso sarebbe la cosa più facile. Nelle nuove leve io vedo tanta fame, tanta abilità, pochissimo spazio. Purtroppo a volte vedo anche poca umiltà, credersi arrivati è la porta perfetta per non andare mai da nessuna parte.

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E poi ad un certo punto hai preso una porta a sorpresa che ti ha portato all’ultima edizione del Festival di Sanremo. Ci racconti come ci sei arrivata?

Credo di avere un animo da giornalista anche perchè soffro ogni volta che non mi trovo dove i fatti accadono. Quando è stato eletto Papa Francesco avrei voluto essere in Piazza a San Pietro a respirare l’emozione della gente. Invece ero in salotto a casa davanti alla tv e non riuscivo a stare ferma, leggendo in internet tutti i profili dei vari Papi papabili per la nomina e saltellando di continuo. Vivevo in una specie di reality tutto mio insomma, c’erano le nominations, il brivido della diretta ecc. E questo del Papa non è che un esempio. Mi succede sempre quando c’è qualche fenomeno nazional popolare. Sanremo è uno di questi. Dopo anni passati a scambiare pagelle virtuali con i miei vari capi di redazione (appassionati come me di musica del resto) quest’anno sono finalmente riuscita ad andare a toccare con mano il tutto. Com’è andata: ho proposto io alla redazione de la Voce di New York di poter seguire la kermesse. Come sempre mi hanno appoggiato e motivato a partire all’avventura, dandomi anche una possibilità e libertà espressiva che non avevo più da anni. Così con un accredito compilato fuori tempo massimo, una valigia più grande di me e nessuna conoscenza o amicizia sono partita allo sbaraglio. Ed è stato un successo. (Si può leggere il diario della mia esperienza sanremese su Facebook. E’ lì, oltre che negli articoli per New York, che ho raccolto le mie emozioni e sensazioni).

Mi ricordo i tuoi post su Facebook mentre eri al Festival ed era divertente seguire te che seguivi il Festival e spedivi aggiornamenti e foto. Brava, sei riuscita a tenermi attaccato ad una trasmissione che di solito non guardo…e mi chiedevo quanta libertà avessi di pubblicare certe immagini e di scrivere certe cose… nel tuo lavoro quanto ciò che racconti è frutto di una tua idea e quanto ti viene invece “assegnato” da scrivere? E quanto conta poi la personale caccia alle informazioni?

Varia moltissimo da testata a testata. Nella stampa locale c’è sempre una scaletta da seguire: gli impegni e la vita politica della città, la cronaca nera delle cose che succedono in ogni minuto (anche 10 minuti prima di andare in onda col telegiornale!), le conferenze stampa con le varie iniziative. Hai poco margine per la creatività e per le tue idee. Certo, devi avere sempre le antenne pronte a captare dove ci sia la notizia, ma non è così semplice se non si conoscono bene tutte le dinamiche della comunità e della città che segui. Il discorso è diverso invece quando tu sei imprenditore di te stesso. Per New York nel mio caso mi capita spesso di proporre temi che mi stanno a cuore, persone che vorrei intervistare. Oppure lavoro su uno spunto che mi viene dato dalla redazione. Quello che la gente spesso non capisce è che non è il giornalista che decide cosa scrivere o non scrivere. Sono le notizie. Il giornalista è “vittima” nel bene e del male di una notizia. Se un evento, un fatto, un profilo non fa notizia, se non c’è “ciccia” da raccontare, non se ne fa nulla.

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Pensando ai giovani che si vogliono affacciare a questo mestiere, quali competenze ti sembra siano essenziali oggi?

Per fare il giornalista, come credo qualsiasi altro lavoro comunque, serve tantissima passione. Se io quando mi alzo al mattino dovessi mettermi a pensare a quanto guadagnerò e quanto invece ci rimetterò, meglio mi giri dall’altra parte e riprenda a dormire. Tanti miei amici pensano a priori che fare il giornalista sia un lavoro che ti rende ricco. Quando poi spiego che non è esattamente così, vogliono sapere quanto prendo con tre lavori e altri (tanti) non pagati. Quando svelo il segreto prima mi guardano allibiti poi mi chiedono perchè io non faccia la barista in un pub, visto che probabilmente arriverei a guadagnare di più.

Non faccio la barista in un bar perchè ora come ora non potrei fare nessun altro mestiere. E ringrazio la redazione di New York per avermelo fatto capire in 5 mesi. Non potrei stare senza l’incognita del non sapere chi incontrerai durante la giornata. Non potrei stare senza riversare emozioni e creatività in un articolo, senza la fatica e la magia di rintracciare una persona della quale possiedi solo nome e cognome. In questo il web è una manna dal cielo: hai il nome, ti attacchi in rete un po’ e dopo mezz’ora se sei fortunato ci stai già parlando. Vi racconto questa, un’avventura che parla di routine e di come la routine del giornalista possa essere la cosa più entusiasmante. Al mattino, prima di andare a lavorare in tv, mi trucco. Non l’ho sempre fatto. Ora lo faccio sempre perchè quel giorno ringraziai di essere ben vestita e truccata.

Ore 10. entro in redazione a TvA. Il mio capo mi dice: “Vai qua, fai questo e questo e poi alle 12 ti mando ad intervistare…. Paulo Coelho!” Mi sono messa a ridere e gli ho risposto “Ok, raccontala più grossa”. Era vero. Dopo due ore ero al fianco di Coelho. Peccato che quel giorno non rilasciasse interviste.

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Pensando ai giovani che si vogliono affacciare a questo mestiere oltre a questa passione sfrenata, che è il requisito numero uno, consiglio umiltà, orecchie bene aperte e un’attitudine ad assorbire come spugne tutto (TUTTO)  quello che fanno/ vi insegnano i vostri capi e colleghi che hanno più esperienza di voi. Serve saper stare in mezzo alla gente, parlarci, portare comunque sempre rispetto per gli altri, mantenere la parola. Io consiglio tanta gentilezza e zero competizione e invidia, tutti possono essere tuoi alleati. La curiosità dovrà essere il vostro pane quotidiano e più sarete curiosi più lo diventerete, più riuscirete ad andare in profondità nelle cose. Serve fare un percorso di studi che ti insegni che cosa sia il giornalismo? Aiuta ma non basta. A lavorare si impara, per fortuna e purtroppo, solo sul campo.

E’ vero che oggi si fa giornalismo imparando a gestire la comunicazione e il linguaggio sui diversi canali (tv, internet, social media, blog, carta stampata, …)? Un giornalista oggi deve padroneggiare questi diversi strumenti?

Più strumenti sa padroneggiare un giornalista, più visibilità avrà. Coi tempi che corrono è fondamentale ma non vitale. Vitale secondo me piuttosto è fare no bene, benissimo, ciò che fai. Tra barcamenarsi e il fare più o meno un po’ tutto così così e fare poche cose fatte bene non so cosa sceglierei. Io cerco di fare non tantissime cose ma al mio meglio. Sul blog Paolo sai già i dubbi che ho e te li ho elencati prima di iniziare l’intervista 🙂 Tv e carta stampata sono due tipologie di giornalismo molto diverse tra loro, sono proprio due linguaggi diversi, ognuno con i loro pro e contro, ognuno con la loro grammatica e il loro target di pubblico. Per quanto riguarda la tv ad esempio, se mi parli di commistione di capacità, sono sempre più frequenti i giornalisti reporter, quelli che escono con la loro piccola telecamerina e fanno tutto: con una mano reggono il microfono per l’intervista, con l’altra riprendono. Entrano in redazione, scrivono il pezzo e provvedono anche al montaggio. Loro hanno un valore aggiunto perchè riescono a confezionarsi il prodotto finito. Ne va della qualità rispetto ad un prodotto creato da diverse professionalità, ognuno competente nel suo, ovvero giornalista, cameraman e magari montatore? Su questo potremmo starne a parlare per delle ore.

Già… e guardando i giornalisti oggi sembra che debbano non solo produrre contenuti e opinioni ma anche “pubblico”, nel senso di avere dei followers che ne confermino la statura e l’autorevolezza del proprio punto di vista…senza dimenticare che oggi grazie a internet, tutti i giornalisti sono sottoposti al confronto diretto con i lettori molto più di ieri, cosa ne pensi?

Ti rispondo con un esempio: Selvaggia Lucarelli. Giornalista perchè scrive su Libero, regina indiscussa dei social. Lei la sua credibilità se l’è creata e giocata tutta così. Scrive su facebook una frase come: “Allora Leon, (che è il figlio) com’era questa pinacoteca che hai visto con la scuola? Mah, molti quadri di frutta morta” e riceve una cosa come QUATTROMILA E QUATTROCENTO Mi Piace. Ora, io posso capire tutto, ma questo mi sembra un lampante esempio di una personalità/opinionista che produce molto pubblico producendo molto poco contenuto. Chiediamoci, è questo che deve fare un giornalista? Ti rispondo io: assolutamente no! Servono opinioni approfondite, che posino la loro base sui fatti. Ti risponde Oriana Fallaci: “Il giornalista deve esistere non per soddisfare banali curiosità, non per alimentare il pettegolezzo o per divertire: deve esistere per aiutare le persone a trovare o mantenere la propria dignità, per combattere la propria ignoranza, per difendere se stessi”. Che questo piaccia o meno ai followers, direi che è un problema loro. Quindi bisogna sempre vestirsi di oggettività senza raccontarsi mai? Credo nemmeno questa sia la via giusta, anzi, è vero l’esatto contrario. Sempre la Fallaci: “La vera scuola dello scrittore è la vita stessa, a incominciare dalla propria. E, dato che il suo lavoro principale è osservare la vita, a incominciare dalla propria, non separa mai la vita personale dal suo lavoro. Non stacca mai: il mio lavoro è meraviglioso, ammesso che venga affrontato non come un mestiere, ma come una missione”.

Un altro esempio di lavoro come “missione” totale e avvolgente. E’ questo il nostro presente/futuro?

Se volete contattare Lara ecco i suoi link:

la mia pagina Facebook: https://www.facebook.com/lara.lago (è vero che è solo per gli amici e non pubblica, ma accetto tutti coloro che mi scrivano il perchè vogliano diventare miei amici virtuali. Se mi rispondono “per guardare meglio le tue foto” non sempre accetto. Ho detto non sempre.)

STUDIARE BENE … E FUORI SEDE

In uno dei primi incontri con gli studenti organizzato in un liceo tempo fa ho incontrato un ragazzo sveglio, Riccardo, un tipo pratico e determinato. Quando in un’aula magna piena di giovani qualcuno spicca, vuoi per le domande intelligenti, vuoi per il piglio sveglio e a suo agio parlando del futuro, vale la pena approfondiresecondo me. Credo inoltre valga la pena sentire l’esperienza di un brillante studente universitario, non un nerd, che ha scelto di andar via da casa per studiare al meglio e al tempo stesso parlare schiettamente di quegli aspetti che preoccupano ragazzi e genitori quando si tratta di trasferirsi per studiare,…giusto per chiarirsi le idee e dire le cose come stanno. Cominciamo con le presentazioni.

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Ciao a tutti, mi chiamo Riccardo, ho 23 anni e sono originario di Treviso. Ho frequentato il Liceo Classico “A. Canova” di Treviso con indirizzo sperimentale linguistico e al termine dei miei studi liceali, anche a fronte di un buon percorso nell’istruzione superiore, mi è stata data la possibilità di studiare presso la facoltà a numero chiuso di Economia alla LUISS “Guido Carli” di Roma, l’università di Confindustria. A luglio, dopo 2 anni e 9 mesi dall’inizio del mio percorso universitario ho completato con successo quella che considero la prima tappa triennale e, grazie al mio voto di laurea (108/110), a partire da Settembre 2013 sono stato ammesso di diritto al corso specialistico in lingua inglese di Management. Oggi come oggi quindi sono ormai tre anni e mezzo che vivo e studio nella Capitale.

Complimenti, rapido e tagliato. Come è stato il passaggio dalle superiori all’università e come è stato andare fuori casa per l’università?

Il salto dalla scuola superiore all’università nel mio caso specifico ha conosciuto una serie di difficoltà che in un primo momento, erano state offuscate dall’entusiasmo di poter andare a vivere in una metropoli, dalla possibilità di conoscere persone nuove e interessanti e soprattutto dalla voglia di mettermi in gioco in un contesto molto più ampio della provincia. Dal punto di vista delle differenze didattiche tra liceo e università l’elemento chiave credo sia il cambio nel modus operandi dello studente: se al liceo lo studio era “guidato” e frazionato dalle verifiche programmate settimana per settimana dal docente, all’università, invece, lo studio diventa pura questione di organizzazione personale. Di fatto si tratta di programmarsi in vista delle scadenze rappresentate dalle date dei singoli esami, bilanciare con criterio le ore di studio da dedicare ai diversi corsi del semestre senza però trascurare la propria vita sociale ma, anzi, il network sociale che si può creare nel contesto dell’università credo sia, assieme alla buona preparazione, uno degli elementi cruciali per un futuro ricco di prospettive e differenti opportunità, qualsiasi sia la facoltà scelta. Sempre in tema di didattica un altro scoglio potrebbe essere rappresentato dalle lezioni: frammentate e molto spesso sparse alla rinfusa durante la settimana. Dall’entusiasmo iniziale che normalmente porta in aula tutti gli iscritti del corso, spesso, si passa in breve tempo ad una situazione di lassismo diffuso per cui l’affermazione più sentita è “che ci vado a fare in aula? Tanto non seguo, tanto il prof segue il libro, tanto il prof non sa spiegare..”, tuttavia mi sento in dovere di dire per esperienza personale che, al di là degli arcaici metodi didattici di molti atenei italiani, la frequenza è spesso legata ad un buon risultato finale: la vera perdita di tempo, sia per un discorso di scarsa produttività che di mancato social networking, è quella di rimanere a casa promettendosi vanamente di studiare ciò che il professore farà a lezione.

Dal punto di vista umano invece, decidere di frequentare un’università distante da casa ha comportato una serie di avversità legate al nuovo ambiente, alla lontananza dalla famiglia e alla inevitabile necessità di “cominciare da zero“ a livello sociale. In questo senso, quindi, nel Settembre 2010, dopo un mese e mezzo di relax post-diploma, ho dovuto attivarmi prima di tutto per trovare un posto dove dormire (e credetemi, seppur Roma sia una metropoli non è così facile trovarne uno a ad un prezzo onesto e soprattutto sufficientemente collegato con la sede dell’università). Il passo successivo, durante i primi mesi è stato quello di adattarsi al un nuovo contesto, differente per dimensioni, per stile di vita ma soprattutto carente di tutte quelle piccole attenzioni che dipendono strettamente dalla presenza fisica della propria famiglia. Infine, dopo un primo ambientamento è arrivato il momento di stabilire dei legami di amicizia forti e sinceri in grado di far venir meno le difficoltà legate alla distanza da casa e dagli affetti: nonostante l’era digitale e le infinite possibilità di comunicare a distanza, l’appoggio di una persona che condivide e comprende le tue difficoltà universitarie, e non solo, è la chiave di volta per potersi sentire a proprio agio nel nuovo contesto. Io in tal senso sono stato molto fortunato e oggi come oggi posso contare su una rete di amicizie vasta sia dal punto di vista geografico che numerico, una sorta di seconda famiglia che perfino durante la pausa estiva non riesco a trascurare.

In sostanza, il prezzo da pagare per il salto universitario, a maggior ragione se lontano da casa, non posso nascondere sia abbastanza alto ma, d’altro canto, la soddisfazione che può dare l’idea di sapersi autonomi e maturi, capaci di affrontare nuove sfide con la sola propria forza interiore, credo ripaghi con tanto di interessi tutti gli sforzi e le difficoltà iniziali.

Sono assolutamente d’accordo con te. Ti ascolto parlare e penso a quanti sentendoti potrebbero a maggior ragione preoccuparsi perché metti in evidenza proprio un punto cruciale: bisogna sentirsi dentro la voglia di mettersi alla prova, da soli e lontani da casa. E poi ci sono altri due fattori che alimentano dubbi e domande: la dimensione della città dove si sceglie di andare e la scelta tra università pubblica e privata. Consiglieresti una grande città per studiare e per lo più in un’università privata?

La mia risposta è un doppio sì: sì alla grande città, ancor meglio se all’estero e sì, con riserva, all’università privata.

La grande città, al netto degli aspetti negativi quali traffico, caos, frenesia e chi più ne ha più ne metta, offre una serie di possibilità lavorative e dinamiche socio-culturali che solamente chi la vive giorno per giorno può cogliere e apprezzare veramente. Se a questo mix esplosivo si aggiunge l’elemento estero allora non si può che migliorare. Come dicevo prima, all’inizio costa sacrificio adattarsi ma dopo qualche tempo la sensazione è chiara e netta: ci si rende conto di essere un passo avanti rispetto ai coetanei rimasti in provincia, sia umanamente che culturalmente. Perciò, se economicamente è fattibile, credo sia un’esperienza da fare. Per quanto riguarda l’università privata la mia riserva sta nella tipologia. Mi spiego meglio. Come nell’ambito pubblico, e forse in maniera ancora più accentuata ci sono università di prestigio differente e questo prestigio non è solo frutto di una buona campagna pubblicitaria ma di differenti parametri tra cui la qualità della ricerca, lo standard degli studenti ammessi, la considerazione delle imprese verso i neo-laureati e i risultati professionali raggiunti dagli stessi laureati dell’ateneo: in tal senso è significativa e di pochi giorni fa la notizia della nomina di un ex alunno LUISS a capo dell’area finanziaria di Apple. Tuttavia, mi sento di consigliare un’attenta valutazione degli elementi fondamentali dell’offerta universitaria senza farsi fuorviare dalle solite trite e ritrite tecniche di comunicazione commerciale. Come al solito, se poi si guarda all’estero – e il mio consiglio è quello di farlo fin da subito – la forte demarcazione tra ateneo pubblico e privato viene meno. Probabilmente perché dal punto di vista culturale all’estero sono abituati a un po’ più di uniformità tra le eccellenze del settore privato e le eccellenze del settore pubblico. Il prossimo semestre avrò la fortuna di passarlo in Canada, presso l’HEC Montreal: questo per dire che l’esperienza internazionale prima o dopo, breve o lunga che sia, è una di quelle cose necessarie per crescere dal punto di vista personale e per potersi poi inserire nel mondo del lavoro con maggior facilità.

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cosa ti sembra che offra in più l’università privata rispetto alla pubblica?

L’università privata è in grado di offrire un più alto livello di network e rapporti con le imprese, organizzazione interna, metodo e qualità di insegnamento e contesto competitivo sfidante. Mentre il fattore networking è legato all’elemento del prestigio, il fattore organizzativo credo sia legato al numero chiuso e al solito vizietto italiano di gestire bene ciò che è privato e gestire meno bene ciò che è pubblico. Per quanto riguarda invece il metodo didattico, specialmente ora che sto frequentando un corso magistrale in inglese, posso dire che le metodologie si avvicinano sensibilmente alle stesse utilizzate nelle più prestigiose università anglosassoni (teamworks, business cases analysis, presentations, partecipazione valutata e seminari interni con luminari della materia e rappresentanti aziendali). E poi c’è il contesto competitivo e altamente sfidante che si respira fin dai primi mesi e che con il tempo si incamera in maniera inconscia nel proprio modus operandi: tutto ciò che si fa, partendo dal risultato degli esami fino ad arrivare a certificazioni esterne e stage formativi, tutto, è svolto con un particolare occhio di riguardo al percorso post-universitario. Il mondo del lavoro fin dal primo anno, viene fatto percepire dai professori come “dietro l’angolo” e proprio per questo viene spesso fatto passare il messaggio di “non farsi trovare impreparati”. Da tale contesto attento ai minimi particolari è evidente che nasca una sana competizione tra gli studenti, spinti a fare sempre di più per non essere da meno del collega di corso percepito come potenziale avversario nella ricerca di un buon posto di lavoro. E tale competizione, finché rimane corretta e sincera, non può far altro che alzare l’asticella nel livello di preparazione degli studenti.

Beh, sembra un ottimo lavoro. Le cose che dici difficilmente mi fanno pensare all’università pubblica. Soprattutto quando parli di organizzazione e di connessione università-mondo del lavoro. Questo secondo aspetto merita più attenzione secondo me nella scelta dell’ateneo, ancor di più se è privato.

Per l’ambiente in cui studio, ho sempre percepito una certa prossimità tra le due. Mi spiego meglio. Le aziende in LUISS si fanno spesso vedere con seminari interni ai corsi, organizzando meeting di discussione e business game. Spesso questo genere di eventi sono anche buone occasioni per poter entrare in contatto diretto con l’azienda stessa e capire che tipo di persone cercano e che tipo di formazione si aspettano. Tuttavia, nonostante questa percettibile presenza appare sempre più difficile arrivare a ottenere anche solo un posto da stagista presso la multinazionale di turno. Infatti, a fronte di una singola posizione di stage aperta l’azienda può trovarsi a vagliare migliaia di curriculum di studenti in gamba. Tutto ciò è il chiaro sintomo che la competizione sul mercato del lavoro è fortissima, soprattutto se si vuole entrare a far parte delle più note aziende sul panorama nazionale e internazionale. Di conseguenza mi sento di dire che in un mercato del lavoro come quello italiano, dove l’offerta di posizioni lavorative valide è nettamente inferiore alla domanda di tali posizioni, esso risulta insufficiente o comunque resta confinato a pochi “eletti”. Il mio consiglio perciò è quello di capire il prima possibile cosa si vuol fare e poi, di conseguenza, essere capaci di accumulare esperienza pratica e teorica al riguardo, non soffermandosi solamente su quello che viene detto a lezione. La mia breve esperienza mi ha già insegnato che al giorno d’oggi la formazione è un concetto molto più ampio della semplice università frequentata.

Concordo in pieno. Rispetto a quel che vuoi fare “da grande”, ti sembra quindi che l’università ti stia fornendo quel che ti serve o cosa pensi che dovrai procurarti “fuori” dagli studi università?

E’ evidente che l’università non è in grado di darmi proprio tutto ciò di cui necessito e sono anche convinto che non sarà mai in grado di farlo con nessuno, pubblica o privata che sia. Credo che la formazione di una persona debba essere strettamente legata a ciò che vuole fare, a ciò che lo appassiona e al genere di persona che vuole essere un domani.

Parlando del mio caso, posso dire che ho preso la strada del Management aziendale è vero, ma cerco sempre di arricchire il mio bagaglio culturale nell’ambito della tecnologia e dell’imprenditorialità: da qualche mese sto pensando di di frequentare qualche corso base di programmazione informatica e sto seguendo dei seminari sull’innovazione e la website usability; seppur ancora allo stato embrionale, con alcuni amici stiamo portando avanti un progetto imprenditoriale nell’ambito dell’e-commerce. Parallelamente gioco nella squadra di calcio della mia università e ricopro il ruolo di responsabile delle attività sportive della residenza universitaria in cui vivo. Insomma, cerco di variare e dedicarmi a tutto ciò che mi possa far crescere come persona e di conseguenza come futuro professionista.

Sono d’accordo, fare e conoscere cose diverse aiuta a completarsi come persona e professionista. Se poi si apprende giocando, è il miglior modo per crescere. Ogni esperienza arricchisce e completa. Soprattutto quelle lavorative. So che sai già cosa vuol dire studiare e lavorare contemporaneamente, lo consiglieresti a chi è più giovane e perchè?

Sì, durante il percorso triennale mi è già capitato di lavorare sia da barista, durante il periodo estivo, e anche come student ambassador per il centro orientamento della mia università e per Bnp Paribas. L’esperienza da barista mi ha insegnato molto e soprattutto che, al di là delle conoscenze teoriche, ciò che conta poi sono i fatti, la pratica: è giusto approcciarsi alle cose da fare ragionando e cercando il migliore dei modi ma alla fine ciò che rimane è solo ciò che si è fatto. Dall’altro lato, le esperienze come student ambassador sono state in special modo un bel banco di prova per mettere in gioco e migliorare le mie capacità relazionali. Entrambe hanno come comun denominatore un inestimabile bagaglio esperienziale, una sorta di conoscenza pratica, difficilmente teorizzabile, che sono sicuro potrà tornarmi utile non appena entrerò a tutti gli effetti nel mondo del lavoro. Non posso che consigliare a tutti i ragazzi di cercare e provare un’esperienza lavorativa, poco importa dove, in ogni caso sono sicuro potrà dare una sorta di vantaggio competitivo rispetto ai coetanei che preferiscono spendere il proprio tempo in altra maniera. Ma non solo, l’esperienza lavorativa nel curriculum mette in risalto la volontà di misurarsi col mondo del lavoro e la volontà di apprendere in fretta come funzionano le cose al di fuori dell’aula. Meglio sempre avere anche solo una piccola esperienza lavorativa piuttosto che non averla proprio. Al termine di un discorso del genere la classica domanda è: dove si trova il tempo per fare tutto? Io, quando mi trovo “impicciato” in mille cose da fare cerco di ripetermi le parole del Prof. Alberto Onetti, startupper e presidente di un importante fondo di investimento:”Se pensate di fare qualcosa nella vostra vita dormendo sempre 8 ore a notte siete degli utopisti”.

Ah ah ah, verissimo. Essere svelti e organizzati conta, ma serve anche il tempo materiale! Vedo anche che sei presente su linkedin e hai anche un profilo ben fatto, lo usi? Lo consiglieresti? Ti ha contattato qualcuno?

Sono presente su LinkedIn ormai dal 2012 e all’epoca solo pochi studenti sapevano cosa fosse e quali fossero le sue funzionalità. Ad oggi, invece, mi rendo conto che sono sempre di più i miei colleghi universitari che sfruttano questo canale social dedicato al mondo del lavoro forse perché, in quanto studenti magistrali sentono come impellente l’esigenza di trovare un impiego o anche solo uno stage o tirocinio curriculare. Io sono sincero, lo uso sì ma saltuariamente: sostanzialmente quasi di mese in mese per tenere d’occhio eventuali offerte di stage interessanti. Lo consiglierei a tutti i ragazzi universitari perché è una buona vetrina ma soprattutto un buon modo per riuscire ad avere una visione d’insieme riguardo il numero e la tipologia delle offerte di lavoro. Ammetto che tramite LinkedIn non ho mai avuto l’opportunità di essere contattato da qualcuno ma posso supporre che questo sia dovuto a una mio basso utilizzo giornaliero di questo social. LinkedIn Forse non sarà la soluzione perfetta per trovare lavoro ma è sicuramente un ottimo strumento per tenere il polso della situazione sempre ben presente.

Si, capisco cosa dici, effettivamente Linkedin, ad oggi, in Italia è molto molto più utile per chi è già nel mondo del lavoro e cerca connessioni per cambiare o trovare lavoro. Per gli studenti è un’ottima pratica per capire come vanno le cose e soprattutto per fare network con i professionisti e le aziende e così proporsi anziché attendere di essere chiamati.

Prima di congedarmi volevo scusarmi se sono stato prolisso ma ritengo che alcune cose meritino una spiegazione precisa sennò si rischia di cadere in un banale pressapochismo. Infine, se qualcuno vuole contattarmi può farlo tramite twitter: @gobboriccardo. Oppure su LinkedIn: Riccardo Gobbo.

Grazie Riccardo e buona fortuna per i tuoi studi e il futuro.